Hai mai provato a convincere qualcuno a buttare via quella pila di giornali accumulati da mesi? O magari sei tu stesso che, davanti al bidone della carta, senti un’inspiegabile stretta allo stomaco all’idea di eliminare quella rivista del 2022. Non è pigrizia, non è disordine comune. Dietro l’incapacità di liberarsi degli oggetti c’è spesso un vero e proprio disturbo psicologico con basi neurologiche documentate: il disturbo da accumulo compulsivo, riconosciuto ufficialmente nel DSM-5, il manuale diagnostico che professionisti della salute mentale utilizzano in tutto il mondo.
Quando pensiamo all’accumulo compulsivo, spesso immaginiamo semplicemente persone disordinate. La realtà è molto più complessa e affascinante dal punto di vista scientifico. Il cervello di chi accumula funziona letteralmente in modo diverso quando si tratta di prendere decisioni su cosa tenere e cosa eliminare. Non stiamo parlando di scelte consapevoli o mancanza di volontà, ma di meccanismi neurologici alterati che rendono l’atto di buttare qualcosa equiparabile a una minaccia reale.
Il Cervello Che Percepisce Il Pericolo Dove Non C’è
Gli studi di neuroimaging condotti da David Tolin e colleghi nel 2012 hanno rivelato qualcosa di sorprendente. Quando persone con disturbo da accumulo immaginano di eliminare i loro oggetti, anche quelli apparentemente insignificanti, si attivano in modo anomalo la corteccia cingolata anteriore e l’insula. Queste sono le aree cerebrali che normalmente si accendono quando percepiamo errori gravi, minacce concrete o dolore emotivo intenso.
Tradotto in termini pratici: il cervello di chi accumula tratta l’idea di buttare una vecchia rivista esattamente come il tuo cervello tratterebbe l’ipotesi di cancellare per sempre i ricordi più preziosi della tua vita. Lo stesso tipo di allarme rosso. La stessa sensazione fisica di panico. Non è drammatizzazione o esagerazione, è proprio così che il sistema nervoso elabora quella decisione.
E non finisce qui. Ricerche successive, come quelle di Mackin nel 2016, hanno documentato alterazioni strutturali vere e proprie nel cervello di chi soffre di questo disturbo. In particolare, una riduzione del volume della corteccia prefrontale dorsolaterale, quella zona che ci aiuta a pianificare, organizzare e prendere decisioni efficaci. È come avere un processore che funziona più lentamente proprio nelle operazioni che servirebbero per fare ordine e gestire lo spazio.
Quando Il Trauma Si Nasconde Tra Gli Oggetti
Se fosse solo una questione neurobiologica, sarebbe tutto più lineare. Ma dietro l’accumulo si nasconde quasi sempre un groviglio di esperienze emotive difficili. I dati clinici mostrano che moltissime persone con questo disturbo riferiscono eventi traumatici o periodi di stress intenso prima che il problema iniziasse o peggiorasse significativamente.
Parliamo di lutti improvvisi, separazioni devastanti, abbandoni che hanno lasciato cicatrici profonde. In questi casi, gli oggetti smettono di essere semplici cose materiali e diventano ancore emotive, testimoni tangibili di persone amate, momenti preziosi, pezzi di vita che non si vogliono perdere. Un vecchio quotidiano sfogliato da un genitore scomparso può trasformarsi in qualcosa di preziosissimo, perché rappresenta una connessione fisica con quella persona.
Non è irrazionale se lo guardiamo da questa prospettiva: è un tentativo disperato di gestire un dolore altrimenti insopportabile. Gli oggetti diventano regolatori emotivi, strumenti per sentirsi meno soli e vulnerabili. Le ricerche confermano che per molti accumulatori, lo spazio pieno offre paradossalmente una percezione di sicurezza, anche quando dall’esterno appare solo caos totale.
L’Indecisione Che Paralizza
Uno dei tratti che meglio predice lo sviluppo del disturbo da accumulo è l’indecisione cronica e paralizzante. Non quella normale che tutti sperimentiamo occasionalmente, ma un’incapacità devastante di prendere qualsiasi decisione senza entrare in un loop mentale infinito di scenari ipotetici.
Ogni singolo oggetto viene caricato di un peso decisionale enorme. “E se poi mi serve?” “Potrebbe essere utile domani” “Forse qualcun altro ne ha bisogno” “Se lo butto, sto sprecando qualcosa di valore”. La mente genera infinite possibilità future in cui quella cosa potrebbe rivelarsi indispensabile, rendendo impossibile la scelta di eliminarla.
Il problema è che la soglia per considerare qualcosa “potenzialmente utile” si abbassa progressivamente. All’inizio si conservano cose sensate come documenti o ricordi, poi si passa a riviste con articoli interessanti, poi a sacchetti di plastica che “potrebbero servire”, fino ad arrivare a conservare scontrini vecchi di anni “nel caso servano per qualche garanzia”. Questo meccanismo ha un nome tecnico: intolleranza all’incertezza.
Gli Oggetti Come Estensioni Dell’Identità
C’è un aspetto affascinante e al tempo stesso inquietante del disturbo da accumulo: gli oggetti non vengono percepiti come semplici cose materiali, ma come estensioni della propria identità. Separarsi da loro equivale a perdere pezzi di sé stessi, a cancellare frammenti della propria storia personale.
Le ricerche cliniche mostrano che questo fenomeno ha radici nei modelli di attaccamento sviluppati durante l’infanzia. Se durante la crescita si è sviluppato un attaccamento insicuro, magari a causa di figure di riferimento imprevedibili o assenti, è possibile che si sia imparato a cercare stabilità nelle cose materiali anziché nelle relazioni umane. Ha un suo senso distorto: gli oggetti non abbandonano, non cambiano umore, non deludono, non tradiscono.
Questo spiega perché molte persone con accumulo descrivono i loro spazi stracolmi come rassicuranti, nonostante siano oggettivamente disfunzionali. Quegli spazi rappresentano una forma di controllo, ogni oggetto è una decisione rimandata, un’incertezza evitata, un rischio non corso.
Il Circolo Vizioso Che Si Autoalimenta
Una volta innescato, il disturbo da accumulo crea un meccanismo perfetto per perpetuarsi. Più oggetti si accumulano, più diventa impossibile gestirli. Più diventa impossibile gestirli, più ci si sente sopraffatti e incapaci. Più ci si sente incapaci, più si evitano le decisioni. Più si evitano decisioni, più si accumula.
Mentre questo loop continua, le funzioni esecutive del cervello vanno in sovraccarico. Gli studi neuropsicologici hanno documentato che persone con questo disturbo mostrano difficoltà in attenzione sostenuta, categorizzazione, flessibilità cognitiva e memoria di lavoro. È come avere troppi programmi aperti sul computer: tutto rallenta, tutto richiede uno sforzo mentale enorme.
Nel frattempo, la vita reale si deteriora. Le stanze perdono la loro funzione: la cucina non è più un luogo dove cucinare, la camera non è più uno spazio per riposare. Le relazioni familiari soffrono e l’isolamento sociale aumenta, perché diventa impossibile invitare persone a casa.
Il Perfezionismo Come Nemico Nascosto
Preparati a qualcosa di controintuitivo: molte persone con disturbo da accumulo hanno tratti perfezionisti marcati. Sembra paradossale, ma la chiave sta nel capire che il perfezionismo qui non riguarda l’ordine esterno, bensì l’impossibilità di accettare errori nelle decisioni.
Studi come quelli di Tolin e Villavicencio del 2011 hanno evidenziato livelli elevati di perfezionismo maladattivo in persone con sintomi di accumulo. Il perfezionista patologico ha standard così alti che qualsiasi scelta può potenzialmente essere sbagliata. Il risultato? Meglio non decidere affatto che rischiare l’errore. E intanto lo spazio si riempie.
C’è anche la tendenza a vedere ogni oggetto come unico e speciale. Dove una persona normale vede dieci contenitori identici, chi accumula vede dieci oggetti distinti, ognuno con caratteristiche che potrebbero renderlo “quello giusto” per qualche esigenza futura. Questa iper-specificità rende impossibile categorizzare efficacemente.
La Componente Genetica
C’è una componente genetica forte nel disturbo da accumulo. Studi su gemelli e famiglie, come quelli di Iervolino del 2009 e Nordsletten del 2013, hanno stimato che l’ereditarietà dei tratti di accumulo si aggira intorno al cinquanta percento. Circa la metà delle persone con questo disturbo ha parenti di primo grado con lo stesso problema.
Non esiste ovviamente un singolo “gene dell’accumulo”. Si ereditano probabilmente vulnerabilità neurobiologiche che aumentano il rischio: predisposizioni nei sistemi dei neurotrasmettitori come serotonina e dopamina, vulnerabilità nei circuiti decisionali del cervello, tendenze innate all’ansia e all’indecisione. La genetica carica la pistola, le esperienze di vita premono il grilletto.
Come Riconoscere Il Disturbo
Non tutte le persone disordinate hanno un disturbo da accumulo. Secondo i criteri del DSM-5, si parla di disturbo quando la difficoltà persistente a disfarsi degli oggetti porta a un accumulo che congestiona gli spazi vitali e causa una compromissione significativa della vita quotidiana.
- Tendenza crescente a riempire tutti gli spazi disponibili
- Disagio emotivo forte all’idea di eliminare anche oggetti di scarso valore
- Conflitti familiari ricorrenti legati al disordine
- Difficoltà progressiva a invitare persone in casa per vergogna
- Giorni di deliberazione angosciosa per buttare qualcosa
Il disturbo da accumulo ha un’alta comorbidità con disturbi d’ansia e depressione, e in alcuni casi con il disturbo ossessivo-compulsivo. Tuttavia, oggi l’accumulo compulsivo è considerato un’entità diagnostica separata, con caratteristiche proprie che lo distinguono dal DOC classico.
Cosa Si Può Fare Concretamente
La buona notizia è che esistono trattamenti efficaci basati su evidenze scientifiche. La psicoterapia cognitivo-comportamentale specifica per il disturbo da accumulo ha mostrato risultati concreti nel ridurre i sintomi. Lavora su diversi fronti: migliorare le capacità decisionali, aumentare la tolleranza all’incertezza, processare i traumi sottostanti, sviluppare strategie di regolazione emotiva più funzionali.
Studi come quelli di Tolin del 2015 hanno confermato l’efficacia di questo approccio. In presenza di disturbi associati come depressione o ansia marcata, possono essere utili anche trattamenti farmacologici di supporto, in particolare gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, anche se la risposta ai soli farmaci tende a essere meno robusta rispetto ad altri disturbi d’ansia.
Il primo passo fondamentale è sempre il riconoscimento del problema. Capire che non si tratta di pigrizia o mancanza di volontà, ma di un disturbo psicologico reale con basi neurobiologiche documentate, spesso radicato in esperienze traumatiche o vulnerabilità genetiche.
Le persone con questo problema non hanno scelto di vivere nel caos. Stanno cercando, con gli strumenti inadeguati che hanno, di gestire paure profonde, dolori irrisolti, vulnerabilità cognitive che rendono il mondo un posto spaventoso. Gli oggetti sono la loro armatura, per quanto inefficace e dannosa possa essere. Dietro ogni pila di oggetti apparentemente inutili c’è una storia, una paura, un tentativo di controllo in un mondo che sembra incontrollabile. Questa comprensione non è pietismo: è il punto di partenza necessario per qualsiasi cambiamento reale e duraturo.
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